verneer la luce

penso che farà piacere a tutti gli amanti della pittura fiamminga,  questa recensione che parla di jan vermeer (1632-1675) un maestro della "luce" nei dipinti ad olio. la fonte  e <disegnoepittura>
buona lettura.

La luce


La luce, la sua qualità cromatica, la sua modalità di espansione e di incidenza sulle cose, riflette il modo di essere di un pittore, esprime la musica della sua anima, di cui i colori e il chiaroscuro sono le note.
È un valore fondamentale per comprendere la sua individualità e il suo carattere.
La luce di Vermeer non è quella perpendicolare di Piero della Francesca, né quella caritatevole di Rembrandt, né tantomeno quella scenografica del Caravaggio. È una luce fisica, quieta, estatica, diagonale e terrestre, ricca di valori atmosferici, di vibrazioni cromatiche.
Cercando una metafora aderente alla sua effettualità indicherei la clessidra.
La clessidra non è un orologio, non ci indica l’ora, non ha utilità pratica, se non per misurare un segmento di tempo prestabilito, utile per un esame chimico o per cuocere una torta.
Possiede, di contro, un forte valore simbolico: ci mostra visivamente lo scorrere del tempo. Sì, la clessidra è la metafora d’identità di Vermeer.
Il vaso superiore è il mondo esterno indefinito, sconosciuto e in conoscibile, il vaso inferiore è quello dell’angolo del suo studio, in cui da una sola e sempre quella finestra, filtra silenziosa come lo scorrere della sabbia, la luce che imbeve di sé il suo, il nostro giorno. È una luce indiretta, filtrata, fresca che scivola discreta sulle cose per non destarle all’uso consueto, per lasciarle nel sogno del loro colore.
I pittori d’interni mostrano la continuità dello spazio esterno con quello interno, concepito come unico e comune spazio della vita, della scena degli aneddoti.
Vermeer, mostrandoci soltanto lo spazio interno lo caratterizza, consapevole o no, come spazio interiore in cui transita, con la luce, la sua, la nostra vita intima.
Se alla ragione appare un triedro, per l’anima è un angolo di silenzio meditativo e contemplativo dal quale Vermeer osserva con stupore la musicalità della luce.
Psicologicamente l’interno e l’interiorità.
Vermeer non è pittore "d’interni", è il pittore dell’interiorità: della gioia e della serenità nei suoi primi quadri, del silenzio della penombra in questa ultima parte della sua produzione, ,dell’interiorità sempre.
Il silenzio profondo, giustamente rilevato da vari storici, che avvolge ovattato le sue immagini, è dovuto alla continua introspezione della sua meditazione, alla sua congenita solitudine, quella dell’anima contemplativa e non attiva, dell’anima che vive il riflesso, l’eco poetica della vita, la sua risonanza interiore, al posto della esternazione, dell’azione, del coinvolgimento totale e promiscuo con essa.
Anche se per poche ore al giorno, egli si ritirava nello studio chiudendosi la porta dietro le spalle, alzando con questo gesto, una barriera fra il chiasso giocoso e allegro dei suoi figli, le voci famigliari, la musica di qualche strumento, le notizie della guerra contro la Francia, il vociare del mercato nella piazza e il suo spazio chiuso, la sua postazione solitaria nella quale spoglia metodicamente, coscientemente, rigorosamente, fino all’ultimo velo, l’ultimo inganno, l’ultimo aggancio con la vita naturalisticamente vissuta, secondo il sano senso comune, per cogliere la verità semplice, nuda, elementare e meravigliosa della pittura.
La pittura si fa’, si guarda, si ascolta e si gusta in silenzio, è una intensa espressione-commozione solitaria.
Il silenzio è il luogo naturale della pittura, il suo nutrimento.
Più silenzioso è un quadro più è poetico e profondo. È la totale assenza di ogni appiglio narrativo, l’assenza del senso comune, il vuoto spinto dal quale il pittore osserva il mondo, che lascia emergere il miracolo della pittura in un senso nuovo.
Mentre per Rembrandt la luce è un mezzo per raggiungere la persona nella sua umanità, nella sua carnale sensitività, per Vermeer la luce esprime il suo modo di essere di fronte al mondo: la contemplazione, non asettica né indifferente, ma filtrata dalla pittura.
Inutile cercare l’aneddoto, inutile cercare lo spessore psicologico, il richiamo della vita quotidiana, non c’è nulla di tutto questo nelle sue tele: silenzio, c’è soltanto il silenzio, quello del suo sguardo, quello della luce che filtra dalla finestra posandosi, silenziosa come il pensiero, sulla superficie delle cose, sulla parete, sul tappeto persiano, sui capelli della ragazza, sull’alzata della spinetta. Questa è la condizione necessaria ed indispensabile a Vermeer per vivere la pittura.
Ora l’ombra invade la sensibilità e l’anima di Vermeer, è il nuovo tono emotivo della sua espressione al quale non vuole né può rinunciare; "Il Geografo" e "L’Astronomo" sono ideati sugli stessi motivi stilistici, imperniati compositivamente non più sui quadri appesi e sulle spinette, ma sulla struttura della figura umana.
Giunto alla massima sintesi formale Vermeer entra in "crisi": non potendo andare oltre stilisticamente, si rivolge nuovamente alla realtà, ricostruendola sulla struttura umana nell’ambito della sua esistenza.
Il gruppo di opere che ci accingiamo ad esaminare, si può dire che equivale al rovescio simmetrico del gruppo luminoso, come se di questo fosse il negativo.
Dove prima c’era la sorgente luminosa, ora appare la penombra generale tanto da costringerci a scrutare nell’oscurità per scoprire i preziosi dettagli che la animano.
Poi vedremo opere in cui l’ambiente è totalmente oscurato, anzi assente e le figure, illuminate da un lato, risaltano sul fondo nero.
Vermeer, a differenza di tanti artisti che iniziano la loro attività con uno stile già precisato nella sua essenza, per poi svolgerlo lungo il tempo e portarlo a compimento senza mai variarne i caratteri, è un pittore che ha avuto, nella sua pur breve esistenza, momenti di crisi e di sviluppo del suo stile, momenti in cui si è impegnato in espressioni per lui inedite, cambiando il senso dello spazio, della luce, delle cose.
È moderno anche in questo: non esegue ciò che sa, non vende il suo talento, non ostenta la sua abilità, lui cerca! Perciò cambia!
Per motivi di razionalità che abbiamo postulato e che Vermeer ha dimostrato col suo lavoro, non si può ipotizzare una mescolanza, nel tempo, di opere che presentano un linguaggio spaziale e luministico così diverso, per cui questo nuovo ciclo espressivo, caratterizzato da un uso nuovo della luce, va prima chiaramente distinto, quindi collocato in un tempo posteriore al gruppo cartesiano per due motivi: la "distanza" della camera ottica e l’esecuzione tecnica.
La camera ottica, strumento fondamentale per la creazione dell’immagine, rivela, dalla considerazione delle opere, che non è rimasta fissa, ma che ha subito un movimento di avvicinamento al modello, procedendo dal "campo lungo", a poco a poco, verso il "primo piano". I quadri che andiamo ad esaminare sono tutti caratterizzati da un fatto: la camera ottica, avvicinandosi alla parete di fondo, ingrandisce la figura umana dandole più estensione nella tela e maggiore importanza come soggetto.
Per quanto riguarda l’esecuzione, queste opere presentano una perfezione e una cura tecnica che presuppone un’esperienza acquisita lungo gli anni.
Perché Vermeer cambia un valore fondamentale quale la luce?
Riconosciuta la razionalità e l’oggettività del suo pensiero e del suo sguardo, si può spiegare il mutamento luministico come il transito obiettivo della luce naturale, esaminato razionalmente: luce espressivamente neutra nei primi quadri. Carica di vitalità e di gioia crescente fino al culmine della sonorità con la "Veduta di Delft". Calante con "L’Astronomo" e il "Geografo". Rivolta al suo valore complementare, al silenzio dell’ombra, nei quadri a fondo scuro.
La parabola luministica, intesa come variazione del registro cromatico, è una verifica dell’equivalenza dei due complementari: chiaro e scuro.
Vermeer, che certamente amava indiscriminatamente la pittura, forse per questo motivo, (fra i vari generi che gli fiorivano intorno e che comportavano la specializzazione esclusiva in un solo genere nel quale identificarsi per coltivare la propria clientela) ha scelto di dipingere gli "interni, per farne un compendio pittorico generale, potendovi inserire la figura umana, la natura morta sistemata sul tavolo, i paesaggi nei quadri appesi alle pareti e perfino, perché no? scene mitologiche, storiche, religiose, che, disinnescate del loro significato ideologico e simbolico, avrebbero espresso la loro caratura estetica. Lui non predilige un oggetto rispetto ad un altro, il suo oggetto è la pittura.
Quando Vermeer inserisce un quadro nella parete del suo interno, sapendo che la pittura è un linguaggio proporzionale, non dipinge i colori reali del dipinto, ma li traduce trasposti nella scala cromatica dettata dalla luce che entra dalla finestra, affinché siano armonizzati.
Inserendo un quadro nel quadro, usa un registro pittorico dentro l’altro.
Vermeer virtuoso esperto di scale cromatiche, consapevole della relatività dei colori, li usa giustamente come i termini dipendenti di quel valore primario, indipendente, che è costituito dalla luce.
Perciò la serie dei dipinti che mostrano una luce chiara è compatibile ed equipollente, in assoluto, con quelli in chiave bassa e grave, senza per questo scomodare la psicanalisi.
Sia nel chiarore che nella penombra, i quadri di Vermeer vivono imperniati su un unico elemento pittorico basilare: la luce.
Pur senza addentrarci in un’indagine impossibile, alla ricerca di motivi psicologici o esistenziali difficili da ipotizzare per giustificare un mutamento stilistico di tale portata, resta il fatto che il cambio di luce non può essere spiegato con la semplice dichiarazione della relatività dei rapporti cromatici, riconducibili ad una più generale verità.
Il cambio di luce provoca un’obiettiva e profonda mutazione interiore in chi guarda, un totale cambiamento di correlazione emotiva col dipinto che non può essere stata trascurata dal suo autore.
Perciò questa novità costituisce una frattura estetica ed espressiva fondamentale: i quadri cartesiani già esaminati sono caratterizzati da una luce che proviene, emana dal dipinto, rendendo i quadri luminosi, quelli che vedremo sono quadri in cui la luce proviene dall’esterno, colpisce gli oggetti avvolti nella penombra, con l’effetto di mostrarci una scena non più luminosa, ma illuminata.

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cristo in casa in casa di marta e maria.


ragazza seduta al virginale.


(il mitico)  la ragazza con l'orecchino di perla.


Jan Vermeer, nato a Delft nel 1632.
Sposato con Catharina.
Iscritto come pittore alla Gilda di Delft.
Nel 1675 muore improvvisamente lasciando alla moglie molti debiti e undici figli.
Questo è quanto si sà di lui.
Ha lasciato anche una trentina di tele (secondo l’attribuzione degli esperti) rappresentanti generalmente degli interni.
La storia lo ha inserito nella schiera dei piccoli maestri olandesi del genere "interno", categoria di quei pittori che narrano e documentano la vita intima, borghese, quotidiana che si svolgeva nelle loro abitazioni. Punto.
Il resto è supposizione, immaginazione, interpretazione, ricerca.
Questa scarna biografia non meriterebbe altro commento se non per il fatto che, da Rejnolds a Van Gogh, dal Thorè a Zeri, da Proust a Malraux, da Claudel a Ungaretti, da Bazin a Gombrich, tutti lo esaltano quale esempio eccelso e sublime di pittore incompreso ed enigmatico, misterioso e di difficile lettura, non ancora valutato quanto merita. Se non sappiamo da chi ha studiato pittura, se non si conosce la cronologia dei suoi quadri (molti non hanno la data né la firma e quelli datati e firmati trovano gli esperti discordi sulla autenticità delle firme e delle date) se non conosciamo le sue idee sull’arte, pazienza, ci restano pur sempre i suoi dipinti!
Riflettendo non è poco ciò che abbiamo di lui.
Quando guardiamo una scena reale, per rilevarne il senso spaziale, la percezione cromatica o quella chiaroscurale, operiamo una selezione, isolando gli aspetti che vogliamo valutare da un contesto eterogeneo e indifferenziato che è quello della natura.
Quando invece guardiamo un dipinto siamo di fronte ad una immagine nella quale i valori formali sono già stati selezionati dal pittore che ce li mostra in evidenza per esprimerci, non il mondo quale è, ma il suo proprio.
Un quadro non è soltanto un oggetto estetico, è un pensiero, un sentimento oggettivato. Di più, è il distillato del pensiero e del modo di essere, è quanto resta di più personale e profondo di un’anima dopo essere stata ripulita e sgombrata di ogni impurità impropria.
L’espressione artistica è una sintesi, un chiarimento, il più lucido ed inequivocabile di se stessi. Poco? Direi che abbiamo l’essenziale per tentare la lettura della sua pittura.
Quella che ne è stata fatta nell’arco di tre secoli lascia insoddisfatti perché, articolata sull’argomento trattato, vincolata al soggetto rappresentato, rimane oscura ed incerta nell’esame della sintassi linguistica adottata.
Essendo, questa lettura, adattabile a qualunque interno di altri autori, non coglie il nucleo espressivo che li contraddistingue.
Questa può essere la spiegazione del fatto che i suoi quadri sono stati attribuiti, nel tempo, ad altri pittori e che dei falsi grossolani hanno ingannato direttori di musei ed esperti di pittura. Gli elogi e gli aggettivi superlativi che puntualmente accompagnano il giudizio sui suoi dipinti, per la loro genericità si svuotano di sostanza, risultando inutilizzabili per una comprensione autentica del suo linguaggio, anzi nascondono, con la loro risonanza, il silenzio imbarazzato che avvolge il giudizio critico.
Quando di un artista non si conoscono i precedenti, gli studi e i maestri, siccome nessuno proviene dal nulla, si cercano agganci stilistici, similitudini formali per collegarlo ad altri, per ambientarlo in una cerchia conosciuta al fine di decodificarne lo stile.
Per Vermeer, di cui non si conosce sostanzialmente nulla, la ricerca delle fonti tecnico-formali è risultata del tutto infruttuosa per un motivo semplice e curioso: si sono cercati gli affluenti nella pittura, mentre la sorgente che pure scorreva in quella cultura, proviene da un altro campo! Sarà perciò più proficuo il procedimento contrario: distillare cioè le forme espressive originali del pittore (qualora le possegga) distinguere e isolare i caratteri dello stile che lo contraddistinguono, che lo contrappongono agli altri del suo tempo, poiché, proprio questi elementi lo definiranno nella sua specificità, come i segni inconfondibili della sua identità.
Come lo psicologo che, fingendo di seguire il discorso verbale del paziente, ne scruta il comportamento, la tonalità della voce, la postura e la gestualità per cogliere, al di là delle apparenze, la verità del suo animo, così noi tralasciamo l’aspetto descrittivo dei dipinti di Vermeer, non lasciamoci distrarre dalle lettere (d’amore?) che le sue ragazze stanno leggendo, scrivendo, porgendo. Dimentichiamo i riferimenti geografici delle mappe appese alle pareti; non lasciamoci sedurre dalle note della spinetta che alcuni sentono provenire dalle altre stanze, facciamo un esame morfologico dei segni grafici esaminandone la funzione, soppesiamo l’equilibrio compositivo, osserviamo la registrazione cromatica della superficie delle cose, ne ricaveremo una lettura assai diversa da quella corrente.
Esaminando la produzione globale di Vermeer saltano agli occhi due aspetti spiccatamente singolari, fortemente originali se non nuovi in assoluto che lo distinguono da tutti gli altri pittori, non solo della cerchia olandese, ma da tutti i pittori del suo tempo e oltre. Primo: la serialità del suo lavoro.
Secondo: il gruppo di tele in cui la composizione si sviluppa e si riferisce ad uno spazio bidimensionale.
Per quanto riguarda il primo singolare aspetto distintivo: la serialità del suo lavoro, basta considerare che dei ventiquattro quadri di "interni", una quindicina presentano praticamente gli stessi oggetti opportunamente variati, alternativamente spostati.
La ripetizione monotona degli stessi oggetti risulterebbe noiosa, oltre che ingiustificata, se pretendesse di essere una cronaca della vita domestica.
È perciò da escludere l’intenzione del pittore di mostrarci il medesimo argomento attraverso "fotogrammi" leggermente variati per documentarci la vita quotidiana.
È invece chiaro, proprio dalla loro insistente ripetitività, che gli oggetti, neutralizzati della carica descrittiva esistenziale, sono utilizzati (come le bottiglie di Morandi) in senso formale quali elementi compositivi: privati del loro apporto rappresentativo della vita, assumono una funzione estetico-espressiva nel dipinto.
Tale assunto formale delle cose è un fatto nuovo nella storia dell’arte.
È vero che anche Rembrandt ha dipinto una serie numerosissima di autoritratti, ma questi costituiscono un esempio opposto alla serialità di Vermeer essendo un corpo di opere tutt’altro che formali, in quanto caratterizzato dalla valenza esistenziale del soggetto dipinto, comprensibile con la successione temporale e con il suo sviluppo psicologico ed umano. L’unico precedente (a memoria mia) paragonabile a questo, in quanto variazione-ripetizione delle medesime figure, è quello delle tre "Battaglie di S. Romano" di Paolo Uccello. Fra le due "serie" esiste però una differenza sostanziale: Paolo Uccello nelle sue battaglie usa una sintassi compositiva (la prospettiva centrale) che non è propriamente una sua personale ideazione, bensì del Brunelleschi (e di Masaccio che l’ha sviluppata figurativamente).
Paolo Uccello sotto la parvenza di cavalli imbizzarriti e travolti, di cavalieri incapsulati nell’armatura, di lance e di mazzocchi, non fa che eseguire una dimostrazione grafica del principio geometrico di collegamento spaziale unitario tra solidi vicini e lontani.
La sua è una verifica visiva di principi e di regole già formalizzati teoreticamente da altri.
Egli non indaga; non scopre, ma verifica, concretizza, dimostra certi esiti come possibili risultati di un principio regolatore non suo, per quanto interpretato in chiave personale e suggestiva. Vermeer invece non possiede alcun progetto nella mente che preveda i risultati della propria ricerca.
Egli percorre un sentiero spirituale svolgendo un cammino che lui stesso passo passo traccerà scoprendolo con rigore di ricercatore senza alcuna certezza di raggiungere la meta. Quale metodo? Quale meta?
Nell’accingerci ad esaminare l’opera pittorica di Vermeer è opportuno fissare un postulato, un punto fermo dal quale partire per orientare le nostre considerazioni in modo lineare e non dispersivo: il postulato di base è la razionalità di Vermeer, carattere fondamentale della sua natura e della sua espressione pittorica.
Dando una scorsa, anche frettolosa, alle sue opere, non si può pensare a Vermeer come ad un pittore che dipinga spinto da un impulso occasionale, non si può credere che le suggestioni estemporanee della vita quotidiana, la vista di persone e di oggetti che lo circondano, dirigano e condizionino la sua espressione pittorica.
Le quotidiane sensazioni e occasioni percettive sono il corredo naturale del suo mondo, la fonte che alimenta la sua sensibilità figurativa, come per qualunque pittore, ma non sono certo determinanti per la ricerca stilistica e per la strutturazione programmatica nella quale lo vediamo impegnato.
Se così non fosse, avremmo, al posto di una serie di tele ripetutamente impostate sugli stessi segni grafici e formali, un insieme eterogeneo di argomenti, di situazioni diverse, di differenti accordi cromatici, dipendenti dalle infinite variazioni del tempo e della vita che lo circonda, come avviene per gli altri pittori.
L’insistenza degli stessi segni grafici significa che ciò che viene espresso non è l’argomento occasionale che ci viene mostrato, ma la struttura costante del suo cervello visivo, indipendente dal motivo contingente.
Il lavoro seriale di Vermeer è spiegabile soltanto se pensiamo ad un pittore che si pone davanti alla sua tela con un programma di ricerca.
Non un progetto definito, prefigurato nella mente, ma un intento guidato nel suo percorso da un senso preciso, seguendo itinerari selezionati: la geometria come struttura compositiva, la luce come matrice pittorica.
La geometria come definizione dello spazio, la luce come espressione del tempo.
La dimostrazione pratica di questo suo atteggiamento sistematico, Vermeer ce la fornisce in sei dipinti che vengono da lui replicati, con gli stessi oggetti e la medesima struttura, evidentemente per scopi di variazione, di correzione di aggiustamento di verifica formale.
Sulla direzione di orientamento delle tre fondamentali strutture pittoriche formali: lo spazio, la luce e le cose, proviamo ad ordinare le opere secondo una cronologia ricavata e dedotta direttamente dalle sue immagini.
Partiamo, per il nostro esame, dal traguardo: "Ragazza che legge una lettera presso la finestra", "Donna con brocca", "Suonatrice di liuto", "Ragazza con la collana di perle", "Donna in blu" e "La stradetta" costituiscono il nucleo essenziale della pittura di Vermeer, quello che abbiamo impresso nella mente come il distillato formale della sua opera, in quanto il più tipico, il più personale ed estremo, il più straordinario e singolare nel panorama figurativo del seicento, per i seguenti motivi: lo spazio di questi dipinti non è quello tradizionalmente descritto, non essendo definito da linee strutturali che lo determinino. Solo l’esperienza ci dice che la figurazione che vediamo è ambientata nell’interno di una stanza, non essendo, la stanza, descritta da alcuna linea.
Lo spazio, in quanto dato geometrico tridimensionale è eluso, sostituito da Vermeer, con l’accostamento di vari oggetti (carte geografiche, quadri, tende, arazzi, sedie).
Un secondo aspetto assolutamente originale è costituito dalla rappresentazione della figura umana, mostrata singolarmente, senza alcun aggancio visivo con noi, senza indicare l’azione che compie, anzi lasciata chiaramente sospesa in una posa inattiva, senza renderci partecipi del suo atteggiamento psicologico o intenzionale.
Un terzo aspetto singolare è la riduzione drastica delle tonalità chiaroscurali ridotte a tre o quattro passaggi scanditi ritmicamente.
Pensando ai quadri degli altri pittori secenteschi (tutti) questa semplificazione elementare appare unica e bisognosa di spiegazione, tanto più che Vermeer è un colorista (non un "monocromo" chiaroscurale, limitato all’accordo caldo dei bruni, come Rembrandt), ma aperto ai colori più vivaci: i primari, il bianco e il nero, esaltati nella loro sonorità.
Da queste rilevazioni obiettive si deve dedurre che Vermeer rinuncia programmaticamente:
a) allo spazio tridimensionale, teorico e ambientale;
b) alla descrizione dell’argomento;
c) alla esplicazione e alla espressività delle azioni;
d) all’uso dei simboli e delle metafore figurate;
e) alla psicologia delle persone ritratte;
f) alla centralità della figura umana nella composizione.Se questo è vero, occorre prendere atto che Vermeer, fin dall’inizio, non cerca alcun innesto nella pittura del suo tempo, anzi ne prende le distanze rinunciando al linguaggio corrente, alla sintassi e alla grammatica visiva in uso, operando un sistematico e puntuale spoglio linguistico di ogni elemento caratterizzante la pittura del seicento.
Dalla sua radicale distillazione restano pochi basilari elementi: i segni, i colori, le cose, la luce, totalmente straniati dai quadri degli altri pittori e riproposti in un contesto del tutto inedito e personale.
Questo gli è stato possibile evidentemente con l’allontanamento dalla cultura figurativa del suo tempo (che conosceva bene) e con l’assunzione di principi fondamentali nuovi, presenti nella medesima cultura, ma appartenenti ad un diverso linguaggio.
È altrettanto evidente che queste opere, essendo spiccatamente originali, non possono essere esiti occasionali né tantomeno iniziali, poiché la loro singolarità è direttamente proporzionale al grado di consapevolezza e di autonomia dei valori espressi.
Non possono essere che i traguardi, i risultati perseguiti e raggiunti del suo lavoro di ricerca. Se fosse un pittore istintivo, umorale, uno che insegue le percezioni occasionali, procedendo in "folle", sarebbe arduo comprenderne le intenzioni, ricavare, dalle sterzate improvvise, un tracciato riconoscibile.
Proprio perché Vermeer è un temperamento razionale, un pittore che pensa e lavora con metodo, possiamo sperare di risolvere il suo enigma, cercare la direzione del suo cammino, L’uomo è un mistero quando è vuoto. Quando è pieno di senso, la soluzione del suo enigma si trova, perché si sà che esiste!
Certi della logica e della consequenzialità del suo operare, cerchiamo il bandolo della sua indistricabile matassa.
Stendiamo su un tavolo (cosa che fortunatamente noi possiamo fare e che era preclusa prima del novecento) tutte le riproduzioni dei suoi dipinti, cercando di mettervi ordine. Raggruppandoli per similitudine e per differenziazione, basando l’analisi sulla rappresentazione dello spazio, sul linguaggio luministico, sulle cose rappresentate, cerchiamo di dare un possibile assetto cronologico alle sue opere, estratto dalla sua sintassi figurativa.
Rispetto alla rappresentazione dello spazio vedremo che i quadri sono facilmente suddivisibili in tre gruppi distinti: un primo gruppo comprendente tre tele a soggetto,

"Diana e le Ninfe", "Cristo in casa di Marta e Maria" e "Dalla mezzana", di argomento esplicito, mitologico, religioso e di costume, inseriti, come tema, nella tradizione ed espressi in uno spazio consueto.
Un secondo gruppo di tele, consistente in una ventina di pezzi, in cui il pittore ci presenta lo stesso ambiente "interno", corredato praticamente con le stesse cose, ripetute, variate, spostate e riproposte.
Un terzo ed ultimo gruppo di opere, costituito da quattro tele, in cui la descrizione ambientale è assente.
Cominciamo la lettura delle opere proponendoci di non "interpretare", per quanto è possibile, ma di ricavare le nostre considerazioni unicamente dai segni, dalle forme, dai colori e dalla luce che il pittore ci indica e ci mostra esplicitamente.